Leggende

Il Ponte di Saint-Martin

Da questa leggenda ebbe origine il carnevale di Pont-Saint-Martin, celebrato in una canzone  che viene cantata e suonata sul vecchio ponte, tra lumi di fiaccole e allegria di maschere riproducesti il Santo, il diavolo e le loro rispettive corti d’onore.

 

Il Ponte romano di Pont-Saint-Martin è detto, ancor oggi, Ponte del Diavolo. Nell’antica leggenda, soffusa di cristiana poesia, si racconta che la popolazione si San Martino, allora chiamato “borgo” e dipendente da Donnas, era sprovvista di un ponte sul Lys, per comunicare con la vicina Carema. Più volte gli abitanti si erano riuniti per costruire un passaggio di pietre o una passerella di legno. Ma ogni notte il lavoro faticosamente preparato, veniva distrutto da una forza malefica ed occulta. Sulle prime gli abitanti di Carema incolparono quelli del Borgo; e quelli del Borgo lanciarono improperi sui Caremesi, ritenendoli responsabili dell’opera devastatrice. Giunse nel frattempo, da Augusta Praetoria, Martino Vescovo di Tours; il gran Santo che diede il nome al paese. Tutti si prepararono con penitenze e con preghiere per ricevere il Santo Vescovo. E quando, poi, egli volle recarsi a Carema, conobbe la storia del ponte tante volte costruito, ed altrettante distrutto. Il Vescovo intuì la presenza del demonio nelle acque del Lys e pensò di venire, con l’aiuto di Dio, a patto col diavolo. Questi, infatti, promise di costruire in una sola notte un ponte largo, lungo e solido. In cambio voleva l’anima del primo che sopra vi fosse transitato. Il patto fu reso noto alle due popolazioni in attesa. Sulla riva destra del Lys stavano gli abitanti del Borgo ed il Santo era in testa alla lunga processione. Su quella sinistra era il popolo di Carema. Tutta la notte vissero in ansia. A chi sarebbe toccata la mala sorte di essere dannato? I più vicini al Santo si stupivano di vederlo tanto sereno e tranquillo. Per ore ed ore udirono tonfi, urli stridule risa e sciaquio di onde: il diavolo ed i suoi accoliti, operavano instancabili. All’alba la grandiosa curva del ponte apparve alla gente meravigliata e timorosa. Nel centro della snella arcata stava Lucifero. Se ne stava in posa di sfida, ritto sul parapetto. Improvvisamente si rivolse al Santo gridando: “Orsù, mantieni la tua promessa!”. Martino di Tours dapprima lanciò un pane sul ponte, poi lentamente, tra l’attesa spasmodica di tutti i valligiani, aprì il mantello e diede libertà ad un cane famelico, che rincorse la sua pagnotta sino ai piedi del diavolo, stupito. Il diavolo voleva un’anima: eccola! Ed afferrò il cane. Vistosi beffato alzò la bestia al cielo imprecando, la sbatté ferocemente sulle pietre del ponte, che si aprirono sotto il calpestio dei suoi zoccoli roventi. Poi precipitò tra una nuvola di fumo e lingue di fiamma, negli abissi del torrente. San Martino benedì il ponte. Giunto presso la buca prodotta dal demonio che nessuno sarebbe riuscito a colmare, il Santo appoggiò trasversalmente sul parapetto infranto, la croce che aveva portato per la processione. Quindi, ordinò di costruire una piccola cappella, là dove c’era la croce. Ancor’oggi al centro dell’arco imponente si vede l’umile cappelletta, che la leggenda ha fatto sorgere per proteggere il ponte da tutte le male arti del demonio.

 Maria Teresa Porté-Dani

immag0001


 

La leggenda del Monte Rutor

 

Vi fu un tempo, assai lontano, in cui le cime e le conche del Rutor erano ricoperte di vegetazione lussureggiante. Un giorno Gesù, travestito da povero, andò ai pascoli del Rutor per provare il cuore ricco del proprietario,le cui mucche pascolavano sparse a migliaia, sull’immenso pianoro. Quando Egli si presentò, umile e supplichevole sulla soglia di casa, il padrone stava osservando i suoi servi i quali riempivano di latte un tino di straordinaria grandezza. Nessuno badò all’infelice che attendeva sulla porta. Allorché il recipiente fu pieno, il padrone disse, brutalmente, rivolgendosi al poveretto: “Chi sei e che cosa vuoi, tu che ci togli la luce, standotene così davanti alla mia porta?”, “Un po’ di latte per ammorbidire il mio pane, e Dio vi darà la luce per l’eternità” rispose il Divino Povero, con le lacrime agli occhi. Uno scoppio di risa interruppe le sue suppliche. Disse il ricco dal cuore di pietra: “ Ah si? Ebbene, ascoltami: piuttosto che dare una scodella di latte a un vagabonde come te, spanderò tutto il contenuto del tino sull’erba del prato”. Detto ciò ordinò ai suoi servi di spandere il latte proprio sopra il prato, che si estendeva davanti alla casa. I servi per un po’ esitarono, ma alla fine, timorosi  dello sguardo infuriato del padrone, obbedirono. Il tino fu capovolto e il latte, sparso interamente,colò sui pendii del pianoro in ruscelletti bianchi che scesero lontano, gorgogliando. Il riccone, intanto, guardava con aria malvagia e trionfante il Divino Maestro. E questi mormorò con tristezza, osservando la prateria inondata di latte: “Guarda come biancheggiano i più lontani prati!”. Poi alzando gli occhi al cielo, aggiunse sottovoce: “E già arrivano le nubi!”. Il ricco montanaro guardò in alto e vide delle enormi nuvole avanzare rapidamente, simili a una minacciosa armata. Poi la dolce luce del sole si oscurò. Quando abbassò gli occhi, il ricco s’accorse che il Poverello era scomparso. La notte seguente egli udì spesso ritornare nelle proprie orecchie le ultime parole del Mendicante respinto: “Guarda come biancheggiano i più lontani prati!”. Queste parole non gli davano pace. Alla fine, per sfuggire all’incubo, egli si alzò e guardò dalla finestra. Era l’alba e, lontano, i prati erano tutti bianchi. E nevicava ancora. E nevicò tutto il giorno ed ancora il giorno seguente. E venne il terzo giorno e nevicava sempre e per molto tempo la neve cadde notte e giorno. L’uomo ricco fu sepolto sotto il bianco lenzuolo di neve, con tutti i suoi beni e con tutti i suoi servitori. E lassù la neve rimase e rimarrà per sempre, sino alla fine del mondo. Così, per maledizione divina, i bei pascoli verdeggianti dell’uomo ricco sono diventati il ghiacciaio del Rutor, che splende ancor oggi ai raggi del sole.

 

Joseph Favre

immag0002


 

 

Fontanachiara

La Valle di Gressoney, dominata dal massiccio del Monte Rosa, ospita un gran numero di villeggianti, che d’estate si spingono in su con le loro escursioni e possono fermarsi dappertutto, su per le cime ed in mezzo ai boschi, sicuri di trovare una fontana a cui dissetarsi. Ed ognuna di quelle fontane ha una storia: è il dono di una fata. Fontanachiara è una di queste sorgenti d’acqua freschissima. Ecco la sua storia:

 

Un giorno due bambini della valle, che si erano inoltrati in una pineta per cercare fragole, si smarrirono. Avevano perduto il sentiero attraverso il quale erano saliti e dovunque tentassero una via per ritornare a casa, se la trovavano sbarrata da profondi precipizi. In alto vedevano passare a coppie le aquile nere che andavano a caccia. Spaventati da quella solitudine, i due bambini si misero a piangere. Improvvisamente in mezzo ai pini videro balenare qualche cosa di luminoso: era una donna giovane e bella come l’astro della sera, che avanzava verso di loro. I suoi capelli biondi come l’oro svolazzavano leggiadramente sopra una tunica verde tempestata di fiori ed i suoi occhi erano profondi come il cielo dietro le balze alpine. Si avvicinò sorridendo ai due bimbi e, prendendoli per mano, si mise ad interrogarli con affettuosa sollecitudine: “Che cosa avete piccini? Come mai vi trovate soli qua nel bosco?”. I due bimbi incantati da quella meravigliosa apparizione, non riuscivano a trovare le parole per rispondere. “Seguitemi” disse la fata. E si mise a camminare davanti a loro. Pareva che dinanzi ai suoi passi le rupi si aprissero e gli alberi si s’inchinassero. Li fece entrare in una grotta e i bimbi improvvisamente si trovarono in una stanza tutta sfolgorante di luci. In mezzo era imbandita una tavola con piati d’oro, nei quali facevano mostra appetitosa le più squisite vivande. I bimbi mangiarono, perché avevano fame, ma rimanevano ancora assai stupiti ed anche un po’ impauriti. Allora la fata li accompagnò davanti ad una fontanella che sgorgava tra il musco e il capelvenere, immerse in quell’acqua cristallina le sue belle mani e lavò loro il viso. Oh, prodigio! Al tocco di quell’acqua i bimbi si sentirono subito liberati da ogni paura. Sembrava che avessero bevuto un liquore inebriante. Quando, ricondotti sul sentiero diritto, ritornarono al villaggio, i parenti, che già si accingevano ad andarli a cercare su per la montagna, rimasero stupiti. Il viso dei bimbi splendeva come circondato da una aureola. “Dove siete stati? Che cosa avete visto su per la montagna?”. I bimbi narrarono tutto: “Abbiamo visto una bella fata che ci ha accompagnato nella sua grotta d’oro e poi ci ha lavato il viso con un’acqua meravigliosa”. La notizia si sparse in un attimo per tutto il paese. Tutti volevano sapere come e dove i bimbi avevano visto la fata e dove si trovava la fontana, la cui acqua produceva quegli effetti prodigiosi. Poiché dai bambini non si poté sapere di più, i valligiani pensarono di rimandare ancora una volta e piccoli verso la montagna: “Se vedete ancora la fata, ditele che faccia dono anche a noi della bell’acqua che ha lassù”, suggerirono loro. I bimbi andarono e, giunti nel bosco dove avevano incontrato la fata la prima volta, si misero a chiamare. La fata apparve più bella che mai. “Che cosa volete da me piccini?”. “Bella fata, quelli del paese pregano di far scendere fino a valle l’acqua di quella meravigliosa fontana,con la quale l’altra volta ci hai lavato il viso” dissero i bimbi. “Su, venite con me, portiamo insieme l’acqua giù nella valle” rispose la fata. Prese una verga di castagno, la immerse nella fontanella e, strisciando con la punta sulla terra, si mise a correre coi bimbi verso la valle, ridendo e cantando. E ridendo e cantando,l’acqua della fontana irrompeva, in un limpido rivolo, nella striscia che lasciava la verga e scendeva verso la valle come un nastro d’argento. Giunta a valle, in un luogo dove sorgeva un grosso macigno, la fata si arrestò, piantò in terra la bacchetta e un getto d’acqua luminoso sgorgò dal terreno. Poi lei, con le mani, plasmando il macigno come se fosse creta, ne formò un sedile, vi si pose a sedere tutta felice e stette per qualche tempo a vedere come il getto d’acqua, fatta una larga pozza, scendesse verso il Lys, e come i due bambini, con le mani immerse nella corrente, si divertissero a giocare. E intanto cantava i modo così melodioso, che i paesani corsero a vedere. Ma le fate non si fanno vedere che dai bambini innocenti, e non appena gli uomini del paese giunsero, la bella creatura di Fontanachiara si dileguò. Però ancora oggi le acque refrigeranti della sorgente fatata sgorgano dalla terra, e là vicino è ancora il macigno foggiato a sedile, dove chi si siede sente dentro di sé una intensa felicità.

 

M.Spano

immag0003


 

Lascia un commento